“La
scelta estrema di dover prendere le armi per porre un argine al dilagare del
male e della distruzione”
Dialogo con il filosofo Roberto Mancini, autore di testi molto
impegnativi come “Per un’altra politica. Scegliere il bene comune” (2010), La
non violenza della fede. Umanità del cristianesimo e misericordia di Dio”
(2015).
Professore ordinario di Filosofia
Teoretica presso l’Università di Macerata, insegna Culture della sostenibilità
e Etica pubblica e culture dell’economia presso l’Accademia di Architettura
dell’Università della Svizzera Italiana a Mendrisio e dal 2012 svolge i
seminari di “Officina del pensiero critico” presso il Master Emba
dell’Università Luiss “Guido Carli” di Roma.
Collaboratore da anni della Comunità di
Bose e delle CNCA, esprime una visione esigente e profonda. Sul suo sito personale ha messo in evidenza una
frase presa dal suo testo “Trasformare
l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche”(
2014): «Viviamo in un periodo
storico in cui un ristretto club di potenti persegue, con l’ingegnosità del
cinismo, il progetto di sostituire la democrazia con il mercato e nel contempo
di egemonizzare il mercato stesso sotto il potere delle oligarchie finanziarie.
Ciò che tutti chiamano “crisi” è in realtà l’effetto dell’attuazione di questo
progetto del quale dev’essere ormai riconosciuta la natura criminale».
Parlare di poteri oligarchici e di
progetti criminali conduce a considerare la necessità della lotta. Come si pone
in questo senso la proposta di una politica nonviolenta? Queste domande aperte
hanno accompagnato l’intervista al filosofo che abbiamo già interpellato a
proposito della fraternità in politica
al tempo del terrorismo.
Ultimamente
abbiamo salutato Tina Anselmi, come figura esemplare della Repubblica, che ha
cominciato la sua attività politica con l’entrata in clandestinità nelle
formazioni partigiane. Sono anche i 100 anni di Teresio Olivelli, il
leggendario partigiano cattolico dei “ribelli per amore”. Esempi di cristiani
che hanno preso le armi per difendere i diritti calpestati da una dittatura
inumana. Come si può affermare il ripudio della guerra affermato sancito nella
Costituzione di una Repubblica nata dalla Resistenza prevalentemente armata?
La via della nonviolenza apre a una
forma di vita che implica la cura verso le persone e gli esseri viventi, in ogni
relazione. Siamo così di fronte a una scelta di azione e a un atteggiamento
profondo che generano uno stile di esistenza. Tale precisazione è necessaria
perché la stessa parola “nonviolenza”, che ha una suono soltanto negativo, fa
pensare a una specie di ritiro dai conflitti e dai problemi, alla passività di
chi è intento solo a mantenere pura la propria coscienza. In verità la
nonviolenza è l’espressione di una conversione radicale delle persone e anche
delle comunità, lì dove si stabilisce una distanza dalla tendenza alla violenza
e invece si aderisce all’Amore come origine e verità della vita.
Chiarito questo punto fondamentale, si
comprende che chi fa una scelta simile non può causare o inaugurare alcuna
guerra. La stessa esperienza della Resistenza, in Italia, durante la seconda
guerra mondiale, non corrisponde a un muovere guerra. Tale esperienza ha dato
seguito semmai alla scelta estrema di dover prendere le armi per porre un
argine al dilagare del male e della distruzione. E’ un atto tragico di responsabilità,
che non lascia intatta la coscienza di chi lo compie, perché costui si assume
una parte di colpa nell’utilizzare da parte sua la violenza contro la violenza
del nazifascismo. Ma la situazione di allora era così compromessa e tragica che
rifiutarsi assolutamente di assumersi tale responsabilità sarebbe stato una
colpa maggiore. Tutti i maestri della nonviolenza, da Gandhi a Bonhoeffer,
sostengono che quando si arriva a questo estremo, c’è anche il dovere di fare
una scelta tragica, ma in ogni caso questo non va elevato a principio di
moralizzazione della violenza “giusta”, che poi sarebbe puntualmente invocato
nelle situazioni future e da chiunque.
L’omicidio è sempre omicidio. Quindi la
Resistenza non rende morale l’uso della violenza. La moralità della Resistenza
sta solo nell’aver posto un limite allo strapotere del regime della violenza,
assumendo la contraddizione per poter avviare la risalita oltre una condizione
totalmente compromessa dal male. Chi si trova su un confine così tragico deve
operare per riaprire tutte le possibilità di convivenza pacifica e della
democrazia che ripudia la guerra. Ed è precisamente quello che fecero quanti
diedero vita alla Resistenza non con spirito di vendetta o commettendo
rappresaglie. Queste persone si battevano per una società completamente
diversa: basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza
italiana ed europea per averne la testimonianza.
Si noti la differenza di prospettiva:
chi si riferisce alla Resistenza per dire che esiste la violenza giusta spreca
e fraintende il senso di quel gesto tragico, mentre lo coglie chi lo riconosce
come il monito a lavorare per prevenire le situazioni di mancanza di
alternativa, costruendo sistemi educativi, sociali, economici e politici che
amplino sempre di più la libertà dalla violenza.
Come
si legge il messaggio del papa sulla giornata della pace sulla politica della
nonviolenza? Possiamo riscontrare dei segnali nelle scelte ragionate dei
cattolici o di altri in politica dando uno sguardo al presente?
Il messaggio di papa Francesco per la
giornata della pace va inteso soprattutto tenendo conto di due sue indicazioni.
La prima è che la pace non è soltanto una meta, è un modo d’essere insieme
interiore e politico. Vale in noi e tra noi, senza operare scissioni. La
seconda indicazione è che l’essere umano, in quanto nato come figlio di Dio, è
capace di pace, per quanto debba sempre affrontare la lotta contro la
tentazione del male e della violenza. La fiducia profonda nell’umanità è una
luce indispensabile per riconoscere le nostre vere possibilità storiche e per
assumere in noi la forza specifica dell’amore divino, senza la quale non
sapremmo esprimere un modo nonviolento di stare al mondo. Se guardiamo ai
cattolici in politica e alle dinamiche politico-istituzionali attuali, non
vediamo una grande rispondenza alla vocazione alla pace. Dobbiamo piuttosto
guardare a molti movimenti e gruppi di liberazione dalle contraddizioni della
società posta sotto la logica del potere e della speculazione finanziaria.
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Oggi la scelta della nonviolenza
comporta a mio avviso l’obiezione di coscienza verso le imprese belliche -
ipocritamente chiamate “missioni di pace” - sia nel Medio-Oriente che in
Afghanistan. In ogni caso è un’obiezione contro la prassi dei bombardamenti,
dell’attività dell’industria bellica e della politiche di potenza. La scelta
della nonviolenza deve contribuire alla rigenerazione dell’ONU e delle
istituzioni democratiche internazionali che solo, semmai, avranno l’autorità e
la responsabilità di frapporsi tra i carnefici organizzati in milizie e le
popolazioni che sono loro vittime. La guerra e anche il terrorismo, in realtà,
sono vere e proprie “istituzioni” preparate da tanti apporti: tipi di politica,
interessi economici, industria bellica, ideologie. Affrontare questa
complessità subito e solo nei termini della casistica che stabilisce quando si
spara e quando no è un approccio astratto e pericoloso; piuttosto bisogna
disinnescare e bonificare tutte queste varie cause. La nonviolenza è azione articolata,
interposizione, prevenzione, educazione, stile di vita. Ed è intelligenza reale
delle situazioni.
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